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Mercoledì, 17 Settembre 2014 00:00

La Svizzera durante il primo conflitto mondiale

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Il primo conflitto mondiale mise a dura prova la neutralità della Confederazione svizzera. La società elvetica era divisa: alcuni scandali non fecero che aumentare le tensioni all'interno del territori.

La mobilitazione dell'esercito

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il Consiglio Federale dichiarò la propria neutralità. Nonostante ciò, non era volontà del Consiglio Federale farsi cogliere impreparati e seguire l’esempio del Belgio, che venne invaso dopo aver rifiutato alle truppe tedesche il permesso di transitare sul territorio (si disse che pagò «il fio della sua scissione dall’Olanda» ). Il Consiglio Federale inviò le truppe dell’esercito sulle frontiere, con il «compito di attendere il nemico», affrontarlo sul confine e «mantenere l’ordine interno». Lo scopo principale della mobilitazione era quello di scoraggiare gli altri stati, principalmente Francia e Germania, a tentare di entrare nel territorio elvetico.

web 17PostkarteTellvonBilleLa maggior parte delle truppe mobilitate in quell’occasione si occupò delle frontiere presenti a nord, per prevenire un attacco attraverso l’Altopiano svizzero. La frontiera a Sud era sorvegliata da uomini presenti a Saint Maurice (Vallese), nel Gottardo e a Bellinzona. Le due barriere ticinesi erano giustificate da un timore precedente allo scoppio del conflitto mondiale. Infatti, da circa l’inizio del secolo, i rapporti con il Regno d’Italia erano piuttosto travagliati ed era temuta un’invasione da parte loro. La risposta iniziale a questa eventualità da parte del Consiglio Federale fu quella di mandare guarnigioni alla roccaforte del Gottardo, passo obbligato per poter accedere al resto delle territorio elvetico.

In questa prospettiva, il Consiglio Federale e gli Alti Quadri dello Stato Maggiore videro nel Ticino un’appendice sacrificabile. Effettivamente, per poter arrivare alla Svizzera interna, i nemici avrebbero dovuto farsi strada attraverso l’intero Cantone prima di raggiungere le truppe elvetiche che li aspettavano in posizione di vantaggio (dovuta alla conoscenza geografica, alla posizione e al clima a cui gli italiani non erano abituati) e di iniziare la vera battaglia per entrare nella Confederazione. I ticinesi si sentirono giustamente delle “bestie sacrificabili” e, dopo varie pubblicazioni e proteste, riuscirono a far sì che venissero mandate delle truppe anche nel Ticino, con punto centrale a Bellinzona. La vera preoccupazione dello Stato Maggiore era che i francesi organizzassero una controffensiva contro i tedeschi attraverso il territorio elvetico.

Questa preoccupazione portò al successivo dislocamento delle truppe che coprirono il fronte settentrionale ed occidentale. La maggior parte delle truppe venne infatti radunata sulla linea Bienne –Soletta–Burgdorf–Berna–Düdingen. Nonostante la nomina del capo dello Stato Maggiore e del generale, e malgrado quest'ultimo potesse disporre «a discrezione dei mezzi militari del Paese», fu sempre il governo a mantenere l’autorità principale ed esecutiva, impartendo ordini al generale Wille (il promotore del sistema di leva che tutt’ora si usa in Svizzera).

Wille fu una figura che ebbe rapporti particolari durante quel periodo. Fu poco amato dal Consiglio Federale, a causa dell’incapacità di gestire il rapporto fra l’esercito e politica. Neanche il capo del Dipartimento militare era un grande simpatizzante di Wille, anche se si dice che fosse principalmente la barriera linguistica e culturale a dividerli (uno era svizzero francese, mentre l’altro era un fermo sostenitore della cultura germanica e prussiana). In questo contesto delicato il generale Wille venne sempre difeso dal capo dello Stato Maggiore che dichiarò che egli godeva della fiducia dell’intero esercito. La posizione del governo svizzero di mantenere sempre il controllo della situazione lo portò inevitabilmente a scontrarsi con lo Stato Maggiore dell’esercito. Per esempio, uno dei conflitti nacque perché il Consiglio Federale limitava le truppe a disposizione di Wille. Allo stesso tempo Wille, come detto in precedenza, credeva di poter «disporre a propria discrezione dei mezzi militare del Paese» . Durante il conflitto, il massimo di uomini mobilitati ammontò a 200'000, tutti chiamati all’inizio della guerra, precisamente «fra il 3 ed il 5 agosto 1914» .

Durante i quattro anni di guerra, i soldati che presidiavano il confine non subirono alcun attacco, perché nessuno dei due schieramenti rivali ebbe mai bisogno di violare la neutralità svizzera per poter raggiungere l’avversario.

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Il Canton Ticino durante la guerra

Vorrei ora focalizzare la mia attenzione sul Canton Ticino negli anni della Guerra. Le frontiere meridionali svizzere non vennero sempre presidiate da militari del Cantone, ma questi si alternavano con le truppe indigene provenienti dal resto della Svizzera. Allo stesso modo, i reggimenti ticinesi si spostavano in continuazione e, quando non coprivano i confini meridionali, coprivano le altre frontiere svizzere. In realtà queste mobilitazioni di truppe mostravano la sfiducia dello Stato Maggiore verso i militari ticinesi. Esso infatti temeva che nella milizia svizzera italiana ci fossero troppi sentimenti filo-italiani per permettere ai militari ticinesi di fare buona guardia al confine con l’Italia.

Il capo dello Stato maggiore non si fidò mai completamente della neutralità italiana. Per questo motivo il fronte meridionale venne sempre sorvegliato da numerose truppe, nonostante fosse un fronte in cui non erano avvenuti scontri. I ticinesi non capirono però questa manovra, non riuscendo a spiegarsi una tale quantità di truppe sul confine fra due Stati che si erano dichiarati neutrali (la neutralità italiana di fatto durò solamente nove mesi). L’entrata in guerra del Regno d’Italia fu per lo Stato Maggiore elvetico un fulmine a ciel sereno. Il fatto che la decisione fosse stata presa da una minoranza nazionalista in Parlamento e fosse in contrasto con l’opinione pubblica italiana non era un segno tranquillizzante.

Bisogna quindi ringraziare la lungimiranza del Capo dello Stato Maggiore – il colonnello Sprecher von Bernegg –, che si era reso conto di quello che sarebbe capitato in Italia correndo ai ripari con il necessario anticipo. L’entrata in guerra del Regno Italiano portò inoltre il Consiglio Federale ed i vertici militari svizzeri a distanziarsi pericolosamente: lo Stato Maggiore voleva mobilitare due Divisioni (precisamente la V e la VI), brigate di montagna e truppe di fortificazione; il Consiglio Federale riteneva invece di aver già raggiunto il limite finanziario possibile e acconsentì unicamente alla mobilitazione della VI Divisione.

La neutralità economica

Economicamente parlando, mantenere la neutralità svizzera fu veramente difficile. Non avendo accesso al mare, la Confederazione per quattro anni dovette dipendere dai paesi limitrofi; principalmente Germania, Francia ed Italia. La Svizzera, già prima della guerra, importava principalmente materie prime ed esportava prodotti fabbricati (da qui il classico stereotipo secondo il quale in Svizzera vengono solamente prodotti orologi). A causa della mobilitazione militare e dell’assenza dei dazi (poiché le frontiere erano chiuse), la Confederazione non poteva in alcun modo equilibrare le spese. Per questo motivo, alla fine della guerra la Svizzera aveva accumulato un deficit di 1817 milioni di Franchi. Al grande deficit bisognava aggiungere l’abituale mancanza di materie prime, tanto che sembrava necessario rinunciare alla neutralità ed allearsi ad una potenza in guerra per poter sopravvivere. L’industria svizzera bloccò le esportazioni delle armi durante il 1914, affinché venisse mantenuta la neutralità economica. Firmando trattati per esportare le armi con le potenze europee la Svizzera riuscì ad importare le materie prime necessarie.

Gli scandali federali

Dopo le fatiche ed i sacrifici del primo anno di guerra, la Svizzera Italiana continuava a non venir considerata come gli altri cantoni e regioni linguistiche. Presto iniziarono le critiche attraverso i giornali. Le alte cariche dell'esercito venivano criticate di essere troppo autoritarie e sostenitrici degli Imperi Centrali.

I contrasti vennero placati grazie all’intervento del presidente della Confederazione, ma si risvegliarono nei due anni successivi allo scoppio di due scandali: l’Affare dei colonelli e il Caso Hoffmann–Grimm

Questi scandali rivelarono ai ticinesi ed ai romandi che i loro peggiori presagi in parte erano veri. Il primo riguardava il passaggio di informazioni di vitale importanza strategica fra due colonnelli elvetici e lo Stato Maggiore dell’Austria–Ungheria. Inoltre, anche il Generale Wille veniva coinvolto: infatti, nel tentativo di insabbiare la faccenda, egli aveva trasferito i due colonnelli. La pena che il Tribunale militare comminò ai due colonnelli fu troppo poco severa secondo il popolo svizzero che, nella parte romanda, si produsse in numerose manifestazioni. Per placare quest’atmosfera servì l’intervento di Wille e del Presidente della Confederazione, i quali inflissero ai colonnelli ulteriori pene. Dopo questo caso il Consiglio Federale prese una serie di misure allo scopo di limitare la supremazia del potere militare. Inoltre venne ribadita la neutralità ed il primato del potere civile.

Nella primavera del 1917, l'affare Grimm-Hoffmann provocò una seconda grave crisi, anche se di breve durata. Nel maggio di quell'anno, Robert Grimm, Consigliere nazionale socialista, si recò a Stoccolma, poi a Pietrogrado. Ufficiosamente, e con il sostegno del Consigliere federale Arthur Hoffmann, Grimm tentò di favorire una pace separata tra la Germania e la Russia. Il 26 maggio telegrafò a Hoffmann, comunicandogli che una pace separata sembrava possibile e chiedendo precisazioni in merito agli scopi dei belligeranti. La risposta di Hoffmann fu intercettata e resa pubblica.

Grimm fu invitato a lasciare immediatamente la Russia. Il 18 giugno, il Consiglio federale fu chiamato in causa dall'affare; il giorno seguente Hoffmann presentò le dimissioni. Gli Alleati ravvisarono nell'iniziativa svizzera un grave strappo alla neutralità e criticarono con forza il Paese; nella Svizzera francese e nel Ticino ebbero luogo alcune manifestazioni per richiamare il governo al suo dovere di neutralità. A risolvere almeno in parte la situazione, vi fu l'elezione in Consiglio federale di Gustave Ador, ginevrino e presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa. 

 

Letto 17523 volte Ultima modifica il Venerdì, 05 Giugno 2020 17:32